Noi italiani, si sa, siamo “esterofili” per natura ed usiamo a piene mani qualsiasi nome, frase, modo di dire che provenga da una lingua diversa della nostra purché faccia colpo, purché ci renda, agli occhi degli altri, più “colti”, eruditi.
Nel nostro settore, quello della pesca (a mosca), l’esempio più calzante è dato dall’abbinamento di due parole che celano un intero mondo, addirittura una filosofia: “no kill”. Letteralmente: “no uccidere”. In termini più accettabili linguisticamente: “non uccidere”. In termini alieutici e più terra-a-terra: rimetti in acqua indenne il pesce che hai appena pescato. Un modo molto semplice ormai entrato nel linguaggio comune dei pescatori per illustrare un concetto denso di umanità, rispetto, consapevolezza.
“No kill” ha un significato che si rispecchia in un’altra espressione leggermente diversa: “catch & release”, letteralmente, “cattura e rilascia”. Non è molto diverso dal precedente, ed il logo che identifica questo consiglio è ormai famoso in tutto il mondo
Ma perché, il “no kill”? Perché questa idea balzana di rimettere in acqua il pescato? Vi sono una infinità di risposte, che per semplicità possiamo raggruppare tutte in una frase di un grandissimo nome della pesca a mosca, l’americano Lee Wulff, uno dei massimi esponenti di questa nostra passione, deceduto qualche anno fa in un incidente aereo.
Da tutti considerato come il padre del “no kill”, il suo nome viene spesso abbinato alla ormai famosa affermazione “Game fish are too valuable to be caught only once.” (I pesci valgono troppo per essere catturati una sola volta).
Al di là del contenuto puramente “economico”, con questa frase Lee ha voluto ricordare a tutti i pescatori (non solo quelli a mosca) non solo che continuando a prelevare il pesce saremo costretti sempre a ripopolare il fiume se vorremo continuare a pescare ma anche che il valore morale della vittoria contro un antagonista (spesso onorevole) può essere ripetuto più e più volte senza recare danno alcuno.
Per praticare correttamente il “no kill” è indispensabile attenersi ad alcune regole. Tanto per cominciare, la lotta deve essere portata a termine nel più breve tempo possibile per evitare al pesce un eccesso di acido lattico che potrebbe causargli danni. E’ dunque importante utilizzare il guadino e non lesinare nel diametro del finale (troppo spesso inutilmente troppo sottile). Così facendo potremo forzare il recupero riducendone enormemente il tempo.
Il pesce deve essere poi rimesso in acqua il più rapidamente possibile per evitargli inutile stress. Quindi, utilizzeremo ami senza ardiglione che ci permetteranno di slamare la preda anche senza prenderla in mano: è sufficiente ruotare correttamente l’amo per farlo uscire dal labbro del pesce. Gli irriducibili dell’ardiglione si rassicurino: non è affatto vero che il pesce si slama più facilmente, purché si effettui un corretto recupero, mantenendo la lenza sempre in tensione.
Molti insistono nel tenere il pesce in mano in pose poco consone alla sua natura solo per scattargli una foto. Questo produce dei danni non indifferenti: molto meglio chiedere ad un amico di tenersi pronto a scattare, afferrare il pesce con entrambe le mani senza stringerlo, scattare e rimetterlo subito in acqua. Tanto, nessun crederà alle vostre foto e vi “accuseranno” sempre di averle manipolate con Photoshop…
Fra le tante accuse che vengono mosse nei confronti di questa procedura c’è il presunto procurato dolore all’animale. Vi sono fior fiore di studi che attestano quanto errata sia questa affermazione. Al contrario delle altre tecniche, nella pesca a mosca la preda viene allamata quasi sempre nella parte anteriore della bocca, dove il pesce è sprovvisto di terminazioni nervose e quindi non sente dolore. Il pericolo più grosso che può derivargli, come abbiamo già detto, è l’eccesso di accumulo di acido lattico. Per questo motivo, è importantissimo che, una volta slamato, gli venga praticata una sorta di respirazione artificiale prendendolo delicatamente per la coda e, tenendogli la testa contro corrente, muovendolo più volte avanti e indietro fino a quando dimostrerà di essersi ripreso completamente, liberandosi da solo dalla nostra presa.
Capita spesso che, se correttamente manipolato, lo stesso pesce venga catturato dopo poco tempo dalla liberazione. E questo succede anche se il finale (troppo sottile…) si spezza durante la lotta o ferrando troppo violentemente: preso successivamente, non è raro ritrovargli in bocca il nostro artificiale che ci aveva appena “rubato”…
Come vedete, con poche e semplici attenzioni è possibile mantenere integra la popolazione ittica evitando l’imbastardimento delle specie indigene e riducendo (eliminando…) le spese necessarie per il ripopolamento che si possono quindi devolvere ad altri scopi alieutici.
Molti obietteranno: “Io sono pescatore e vado a pesca per prendere il pesce”. Giusto. L’istinto predatorio è innato nel genere umano ed è difficile da reprimere. Dopotutto, però, noi andiamo a pesca per divertirci (no, non saltate fuori a dire che ci andate per mangiare! Nel nostro tempo questa affermazione è del tutto falsa e non ci crede più nessuno) ed abbiamo la possibilità di farlo senza incidere negativamente sulla popolazione ittica. Perché non farlo, allora?
Personalmente non sono contrario all’idea di portare a casa il pescato “una volta ogni tanto” se si decide di mangiare pesce, quel giorno. Ma sono decisamente contro chi lo fa sempre e comunque, per mostrarlo agli amici e poi darlo al gatto o gettarlo nella spazzatura.
L’argomento richiede tanto spazio ma la redazione è tiranna… ci ritroveremo nuovamente su queste pagine.
Arrivederci!!!
Ps: quanto sopra si riferisce a qualsiasi specie ittica, e non solo alle trote!!!